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Un ritratto di Ella D’Arcy

Tra «The Yellow Book», Parigi e la libertà: la vita irregolare e appassionata di Ella D’Arcy.

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Prima edizione di Ariel: The Life of Shelley (1924).

Sono i primi anni Trenta del Novecento ed Ella D’Arcy si trova a Parigi. Si è tinta i capelli di un vistoso rosso aranciato e trascorre le giornate al Cafè des Deux Magots, sorseggiando della Bock e osservando i giovani bohémien a passeggio per la città.1J. Adams,  Decadent Women: Yellow Book Lives, Reaktion Books, Londra, 2023, p. 270. I tempi di «The Yellow Book» sono ormai lontani e ora lavora sporadicamente a qualche manoscritto. L’ultima sua pubblicazione è la traduzione di Ariel, la biografia di P.B. Shelley per mano di André Maurois, pubblicata come Ariel: The Life of Shelley nel 1924. A Parigi deve aver trovato il suo posto tra le parole di Maupassant, che ha inspirato il suo stesso stile, e di Flaubert: avrebbe dovuto tradurre Souvenirs Intimes (1895), il memoir della nipote Caroline Franklin Grout sullo zio Gustave. Le due si sono incontrate nella piccola stanza parigina di D’Arcy, dall’arrendamento essenziale ma ingombra di libri e manoscritti. Per l’occasione, Charlotte Mew l’aveva aiutata a metterla in ordine, provvedendo ai fiori, ai pasticcini e a quanto necessario. Dell’esito di quell’incontro e del progetto in questione, tuttavia, non abbiamo altra notizia.2Ivi, p. 225.

Parigi è ormai una seconda casa, se non la prima, ma è sempre stata meta e rifugio delle sue frequenti fughe da Londra anche in più giovane età. Di famiglia irlandese, Ella D’Arcy aveva trascorso parte della sua infanzia nelle Isole del Canale, in particolare a Jersey, immersa nel folklore e nella cultura locale, imparando il francese. Della sua famiglia non conosciamo molto, non vantava infatti di alcuna parentela con figure di spicco dell’epoca: lei stessa si definì figlia di «negozianti di periferia» in una lettera a John Lane.3E. D’Arcy, Some Letters to John Lane, A. Anderson (ed.), Tragara, Edimburgo, 1990, p. 18. Suo padre, Anthony Byrne D’Arcy, era un commerciante di malto e cereali, mentre della madre, Sophia Anne, sappiamo solo che era figlia del segretario comunale di Gravesend, nel Kent. Tra il 1880 e il 1881 studiò alla Slade School of Art di Londra, ma a causa della sua pessima vista cominciò invece a dedicarsi alla scrittura.

Prima edizione dei 13 volumi di «The Yellow Book» (1894-97).

Fu nel 1894, dalla sua casetta di Hythe, nel Kent, che cominciò la sua avventura con «The Yellow Book». Dopo aver inviato il manoscritto di “Irremediable”, il racconto che fu scartato da Blackwood’s perché troppo audace per i loro lettori,4J. Adams, cit. p. 225. Henry Harland, il direttore, andò a conoscerla personalmente. Harland si trovò di fronte una donna «dall’aspetto interessante, di buon animo e davvero intelligente, anche se forse un tantino portata a prendere le cose un po’ troppo sul serio, in questo mondo che è il meno serio possibile».5Lettera di Henry Harland a Richard Le Gallienne, datata “Sabato” [primavera 1894], cit. p. 23. In breve tempo D’Arcy divenne una collaboratrice fidata di Harland e dell’editore John Lane. In alcune lettere, Harland la definiva con il titolo di «sub-editor», una sorta di vicedirettrice, facendo sapere di pagarla di tasca propria.6A.M. Windholz, “The Woman Who Would Be Editor: Ella D’Arcy and the Yellow Book”. Victorian Periodicals Review, vol. 29/2, 1996, p. 117. Eppure, nelle dichiarazioni della stessa D’Arcy si pone con una certa distanza da questo ruolo; infatti, a Katherine Mix, all’epoca una giovane dottoranda che la incontrò a Parigi, disse: «C’ero abbastanza spesso, e aiutavo come potevo. Ma non sono mai stata davvero un’editor».7K.L. Mix, A Study in Yellow: The Yellow Book and Its Contributors, Kansas University Press, Lawrence, 1960, p. 190. Le sue parole rivelano la frustrazione di una donna che, pur avendo talento e ambizione, aveva un ruolo limitato da una struttura redazionale che riservava le scelte editoriali agli uomini.

Ella D’Arcy in «The Bookman» (dicembre 1895).

Dopo due anni di collaborazione e a un solo anno dal declino di «The Yellow Book», D’Arcy decise di compiere un gesto di ribellione senza precedenti: modificò l’elenco dei contenuti del nono volume, pubblicato nell’aprile del 1896, senza il consenso del direttore. Lo annunciò in una lettera a John Lane, dicendo di fare «da vero Angelo Custode al direttore – anche se lui non lo sa. Sto completamente riscrivendo la sua lista dei contenuti, secondo il mio gusto personale!».8E. D’Arcy, cit. p. 24. Quell’angelo custode non tardò a trasformarsi in angelo caduto: il gesto le costò il ruolo nella redazione e, pur continuando a collaborare regolarmente con la rivista, perse una fonte di reddito fondamentale.

D’Arcy è stata una delle collaboratrici regolari di «The Yellow Book», presente in dieci dei tredici volumi totali. Le storie affrontavano temi come la crisi del matrimonio, la condizione femminile e le ipocrisie sociali, introducendo nuove prospettive sul ruolo della donna e sui ruoli di genere. Allo stesso tempo, riflettevano l’innovazione stilistica del Decadentismo attraverso la sperimentazione formale del racconto breve, l’uso di narratori ambigui e dell’introspezione psicologica. Ma per lei, scrivere non era un compito facile. Continuava a procrastinare, tanto che una volta Harland la chiuse a chiave nella sua stanza, rifiutandosi di farla uscire finché non avesse completato il suo racconto.9J. Adams, cit. p. 129. L’amica Netta Syrett ricorda a proposito:

Sebbene la sua prosa fosse davvero notevole, e lei stessa molto intelligente e divertente, era la donna più pigra che io abbia mai conosciuto! Una volta venne per una quindicina di giorni nel piccolo appartamento di Parigi che mi era stato affidato, e ogni mattina, durante le mie ore di lavoro, la chiudevo a chiave nella sua stanza, con il severo ordine di scrivere. Invece, leggeva romanzi francesi sul balcone e, quando la liberavo, si limitava a ridere e a dire che non aveva nemmeno preso in mano la penna. […] Nonostante il suo comportamento erratico e la mancanza di affidabilità nelle parole e nei fatti, sapeva essere una compagna deliziosa, divertente e spesso arguta. La chiamavamo «Goblin Ella» e fingevamo che quando spariva per mesi, o addirittura per anni, e poi un giorno rientrava nel nostro appartamento di Londra come se fosse stata assente per mezz’ora, fosse volata a un sabba delle Streghe con la sua scopa e fosse tornata con lo stesso mezzo.10N. Syrett, The Sheltering Tree, Geoffrey Bles, Londra, 1939, pp. 98-99.

Ella D’Arcy ritratta da Wilson P. Steer in «The Yellow Book» (vol. 2, 1894).

Dopo la fine del suo lavoro a «The Yellow Book», D’Arcy si rivolse a John Lane alla disperata ricerca di un nuovo impiego, arrivando a offrirsi persino per lavori giornalistici minori, ironizzando sulla “reputazione” che lui stesso le aveva costruito. Accettò infine un incarico presso la Bodley Head a Oxford.11A.M. Windholz, cit. p. 126. Da questo momento in poi, le notizie sulla sua vita diventano più frammentarie. Sappiamo che D’Arcy non navigasse nell’oro, che si spostò a Parigi, e sappiamo anche che continuò a lavorare a diversi progetti, che però non furono mai pubblicati. Nel 1921 offrì a John Lane una raccolta dal titolo More Modern Instances e lo studioso Benjamin F. Fisher IV sostiene che lavorò a numerosi romanzi, tra cui uno ispirato a Shelley e alla sua cerchia. Scrisse poi una biografia su Arthur Rimbaud – all’epoca un personaggio controverso – che non fu mai accettata da alcun editore, a dimostrazione del fatto che D’Arcy fosse un passo avanti ai tempi. Infine, un romanzo intitolato Poor Human Nature fu annunciato dalla Bodley Head. Nessuno di questi vide la luce.12A.M. Windholz, ivi. p. 126; B.F. Fisher IV, “Ella D’Arcy: A Commentary with a Primary and Annotated Secondary Bibliography”, in English Literature in Transition, 1880-1920, 1992, vol. 35(2), p. 181.

L’ultimo ritratto che ci rimane di lei è quello della sua mondanità parigina, tra i tavolini dei cafè e la sua stanza in Rue Jacob. Un po’ meno ribelle di un tempo e con quella saggezza data dell’esperienza, scrive a Mix:

Ribelli un tempo, forse, ma col passare degli anni gli uomini diventano contribuenti, padri di famiglia, prendono il tè la domenica con la signora Grundy e scontano il coraggio della giovinezza tentando di estirpare ogni pensiero libero nei giovani di oggi.13J. Adam, cit. p. 271.

Una frase che sigilla una vita di sperimentazione, tenacia, ma anche impegno sociale: non una resa, ma la lucida consapevolezza di come il mondo cerchi di domare anche i cuori più indisciplinati. Ma in fondo, a Parigi, tra i romanzi francesi e i suoi manoscritti sparsi, D’Arcy sembra ancora resistere, silenziosamente, alla signora Grundy.


Francesca Corsetti (@cf.ie) ha conseguito la laurea magistrale in Lingue e Letterature Europee, Americane e Postcoloniali all’Università di Venezia e un Master in Advanced English Studies all’Università Autonoma di Barcellona. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla letteratura inglese di tardo Ottocento, con particolare attenzione per il recupero di voci femminili dimenticate. Nello specifico, durante gli studi ha approfondito l’opera di Ella D’Arcy e Pearl Richards Craigie. Collabora con il mensile Casentino2000 e con il blog CanadaUsa dell’Università di Bologna.

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