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Le canzoni di Bilitis

Le illustrazioni di George Barbier per un affascinante caso di mistificazione letteraria.

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Quella mattina non mangiai, né all’imbrunire, e non mi misi né il rossetto né la cipria sulle labbra, perché il suo bacio potesse restare più a lungo.

La raccolta di poesie Le canzoni di Bilitis fu pubblicata a Parigi nel 1894 e secondo il traduttore Pierre Louys si trattava di versi greci antichi scritti da una fantomatica poetessa chiamata Bilitis, cortigiana e contemporanea di Saffo, le cui opere furono ritrovate incise sulle pareti di una tomba a Cipro. In realtà le poesie erano completamente inventate e scritte da Louys stesso.

Quando il libro fu pubblicato, inizialmente ingannò anche gli esperti di greco antico. Louys mistificò l’intera storia di Bilitis, inventandone la vita, la bibliografia, persino articoli scritti da un immaginario archeologo tedesco di nome Heim.

I testi delle Chansons ruotano intorno al tema dell’amore e dell’erotismo saffico, e raccontano in tre parti la vita di Bilitis: la prima dedicata all’infanzia della poetessa nella nativa Panfilia, e alle sue prime esperienze sessuali; la seconda elegiaca racconta il soggiorno a Mitilene; l’ultima parte è dedicata agli anni che la poetessa passò a Cipro come cortigiana.

Claude Debussy, amico intimo di Louys, nel 1898 musicò tre poesie tratte dalle Chansons, e nel 1900 creò la “Musique de scène pour les chansons de Bilitis” da suonare durante la recita di dodici di queste poesie.

George Barbier è stato uno dei più grandi illustratori francesi della prima parte del XX secolo. Nato a Nantes nel 1882, a soli 29 anni allestì la sua prima mostra, ottenendo un successo quasi immediato e ricevendo l’incarico di disegnare costumi per il teatro e il balletto e illustrazioni per l’alta moda. Nel 1922 illustra Les Chansons de Bilitis.

La raccolta è stata ripubblicata da Feltrinelli, nella traduzione di Eva Cantarella:

Tutto, la mia vita, il mondo, gli uomini,
tutto quello che non è lei non è nulla.
Tutto quello che non è lei te lo regalo,
viandante.

“La storia delle Chansons de Bilitis rimanda due immagini ottocentesche della Grecia molto diverse tra loro, ma unificate dal fatto di essere, comunque, la proiezione di un sogno: quello di chi, come Pierre Loüys (e i suoi molti ammiratori), la vagheggiava come il luogo della libertà pagana e il momento felice in cui sentimenti, emozioni e sensazioni avevano potuto esprimersi al di là di ogni forma di repressione, e quello di chi, come Wilamowitz, la idealizzava come luogo dell’autodisciplina, del controllo di sé, della bellezza e della civiltà intese come risultato di una tensione intellettuale e morale che era stata alla base di ogni conquista scientifica, artistica e politica. Che il sogno di Pierre Loüys fosse, nelle linee generali, assai lontano dalla realtà abbiamo detto. Ma anche la Grecia di Wilamowitz era in altro modo un sogno: che la disciplina dei greci e il loro controllo di sé fossero ispirati a una morale sessuale diversa dalla sua era cosa che neppure il principe dei filologi poteva ammettere. Così che, delle Chansons, egli si impegnò a criticare con particolare accanimento, per denunciarne la falsità, proprio l’unico aspetto che in qualche modo, sia pur molto approssimativo, poteva avvicinarsi alla realtà: l’amore tra due fanciulle in un thiasos, l’amore tra Bilitis e Mnasidika.”

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